Biografia
Sono nato di venerdì, chissà se è una cosa buona o no. Io, già da bambino, decisi che intanto era una cosa bella: venerdì é il giorno di Venere, la dea della bellezza, e allora avrei cercato di vedere di tutte le cose il loro aspetto più bello. E poi, Venerdì era l’amico di Robinson Crusoe, e questo mi spingeva verso cose lontane che però mi sembravano molto vicine, proprio vicine. Mi sembrava di vederle, anzi,… le vedevo. Ancora oggi mi chiedo se vediamo meglio con gli occhi o con la mente.
Era di venerdì e non era ancora finita la guerra: la seconda Guerra Mondiale, voglio dire. E, come sempre, non era bella la guerra. Me ne parlava tanto mio nonno, che aveva vissuto la prima di Guerra Mondiale, e concludeva sempre il suo discorso col dire che no, la guerra non é proprio una bella cosa. E io continuavo a non capire perché avessero fatto la seconda visto che la prima non era stata bella.
Più in là riuscii a capire che per qualcuno, magari non per tutti, era redditizia. E allora, per questo qualcuno, forse non era bella – la guerra-, ma dopotutto neanche brutta.
E così mi spiegai perché ogni tanto, dagli anziani del mio paese, sentivo dire che non é bello ciò ch’é bello ma ch’é bello ciò che piace: a qualcuno il reddito piaceva più d’ogni cosa.
Poi la difficoltà del dopoguerra mi spinsero verso la città. La grande città, la più bella delle città. Mi sono sentito fortunato, e qui ho continuato a cercare il bello: nelle sue mura antiche, nei tesori d’arte che conserva, nel suo cielo, nel suo paesaggio. E non mi sembra strano se tutta questa bellezza si traduce spesso in una visione di cose lontane ormai; come il mare che, bambino, vedevo poco lontano, dal mio balcone sull’agrumeto. Quante volte ho rivisto il mondo di Venerdì solo per aver letto le avventure di Robinson!
Mio padre aveva avuto anche dei cani; e li aveva amati. Però solitamente parlava del suo cavallo, anzi della sua cavalla: Nina, questo era il suo nome. E me ne parlava come si parla di un amico, perché era un’amica. Ne rimasi convinto vedendo quanto amasse raccontare le cose che facevano insieme e come, per farlo, usasse il plurale: “Siamo andati…”, “Ci siamo fermati…”, “Abbiamo visto…”, e qualche volta perfino “Abbiamo pensato”. Più tardi ne afferrai il senso: Al di là delle diversità egli vedeva Nina e se stesso solo come due creature che procedevano insieme, sperimentando la vita. Ciascuno con le proprie percezioni, fors’anche diverse, davanti alle cose del mondo. Non posso non pensare che questo abbia influito molto sulla mia fascinazione riguardo alla cavallinità.
Io sono fra quelli che pensano che i cavalli, ma anche gli altri animali, vedano molto di più di quanto noi umani generalmente crediamo. Non sapranno leggere la nostra scrittura, ma di certo sanno leggere la natura e gli accadimenti.
In questo momento mi torna in mente Pablo Neruda:
” I loro colli erano torri
scolpiti nella pietra dell’orgoglio….” (Cabballos).
Quando sei piccolo, ma già proprio da neonato, coloro che si interessano a te amano esercitarsi nel gioco delle somiglianze, andando a scovare fin quelle più minute. E ognuno sviluppa in questo le convizioni più ferree, mai disposto ad indietreggiare, ma, al massimo a mercanteggiare sulla somiglianza di un orecchio del pargolo con quello di uno zio remoto, in cambio di una concessione sulla lunghezza delle ciglia, tanto simili a quelle di una zia.
Non é stato il mio caso. Nel mio caso il coro di famiglia era unico, la mia somiglianza con il nonno materno era evidente e certa: ero piccolo di statura, proprio come lui! La cosa mi dava un poco di fastidio, che aumentava man mano che crescevo (di età). Mi chiedevo perché mai non facessero come per tutti e non si mettessero a guardare i lineamenti, come facevano con mio fratello, per esempio, che intanto cresceva tranquillo, somigliando al nonno paterno.
Io lo invidiavo un poco devo dire. Fino alla prima media però. Perché quell’anno mi alzai di venti centimetri in così poco tempo, che i miei mi portarono dal medico, avendo sentito parlare di gigantismo. Fu un expoit isolato, poi ebbi una crescita normale. Del periodo di bassa statura, una cosa mi é rimasta : l’abitudine di guardare in su, verso il cielo. Non sempre tanto in alto però, altrimenti avrei fatto l’astrofisico. Diciamo ad altezza un pochino più,… umana: tant’é, ho fatto il meteorologo. Così, se ho indugiato a guardare il cielo con la testa tra le nuvole, é stato per lavoro.
Ma a chi non piace guardare il cielo? Tutti, tutti i viventi non solo gli uomini, amano farlo; per coglierne bellezza e poesia. Anche quando il cielo non é di grande umore, e magari é incombente.
Dal mio liceo si vedeva il Colosseo. Mi piaceva guardarlo ed ero certo che a lui piaceva essere guardato. Ma ogni tanto acuivo lo sguardo e allora vedevo anche cose che non mi piacevano per niente. Come le frotte di persone – antiche e meno antiche – che ne depredavano i marmi, tranquilli, senza suscitar proteste. O quelle moltitudini – ancora più antiche – che, quei marmi li avevano tirati su a costo di impastare la malta con il proprio sangue di schiavi.
Può essere dura la strada della bellezza. Ero e sono sicuro che il Colosseo stesso non avrebbe voluto essere costruito a quel prezzo.
Ho un grande amico, uno di quei rari amici con cui mischi le lacrime del dolore. Lui ama il marmo. Lo avevo appena conosciuto, davanti ad uno specchio di mare, e già, scavando pigre buche nella sabbia, me lo decantava: duro da scavare – mica come la sabbia! – ma capace di far vivere forme meravigliose e durature. Qualche volta lui ci si é misurato con quest’ostico avversario e qualche soddisfazione l’ha anche avuta. ” Fallo anche tu!” mi dice. No, io no: trovo la creta più tenera.
Il segreto della maternità mi affascinò ch’ero ancora molto giovane: era il momento che leggevo Federico Garcia Lorca ed il suo “Yerma”.
Yerma non riusciva ad avere figli; avvilita, per giunta, da un marito insensibile alla cosa perché lui i figli non li desiderava. Così Yerma trascorreva i suoi giorni nello struggente desiderio di conoscere i sentimenti e le emozioni che la maternità riesce a suscitare, temendo tuttavia di non poterlo mai fare.
Si spinse allora a chiederne alla sua amica Maria, che di un bimbo era in attesa. Maria le descrisse la propria senzazione: “Hai mai stretto in mano un passerotto? E’ la stessa cosa,… ma nel sangue”.
La porto ancora con me questa immagine, tanto potente e delicata. Soave.
Sarà per questo che tante madri chiamano “passerotto” i propri figli?
Il 10 Luglio del 1976 mi avviavo di malavoglia verso la mezza età quando la diossina tracimò su Seveso: fu la Nube Tossica.
Forse era il segno ed un invito al dissenso verso un modello di vita che la nostra società aveva avviato e rischiava di diventare prigione. Ognuno, allora, si interrogò per quel che seppe. Di certo non si interrogarono bene coloro che potevano decidere indirizzi di progresso per vie meno dolorose e più praticabili. Tanto che,nel passar degli anni, altri e più disastrosi eventi hanno dovuto vedere i nostri occhi.
Così ciò che ci era parso drammatico cominciò a sembrare meno drammatico e ciò che sembrato terribile cominciò ad apparire meno terribile: diventiamo come spugne in grado di assorbire il nefasto in dosi sempre maggiori. La nube tossica invase anche gli animi quel 10 di Luglio?
Spesso mi chiedo se questa assuefazione non ci porterà a perdere perfino la speranza di un mondo migliore, ma scaccio questo pensiero: la Speranza é l’ultima dea. Lo dicevano chiaramente gli antichi: dev’essere così!
Nei miei giorni giovani e leggeri sognavo il cassetto dei ricordi. Lì avrei messo tutte le mie cose belle e ogni tanto me le sarei ripassate! Un cassetto fatato, così me l’ero immaginato:chissà in quanti lo hanno fatto!
Durò poco, però. Gli anni passano, e con loro la nostra leggerezza.Allora ti accorgi che più che fatato, quello é un cassetto stregato. Uno che dentro di sé ingoia tutto. Quello che volevi e quello che non volevi, le cose belle e le cose brutte. Anche le cose bellissime, ma anche quelle bruttissime.
E’ un cassetto prepotente, gli piace sfuggire al tuo controllo. Ti permette di andarci a rovistare dentro a cercare quel che ti piace, ma ogni tanto avviene che lui prenda l’iniziativa: e allora, come un fumo, una essenza,si fa la via- trasuda- tra le sue fessure e ti raggiunge: e ti ricopre di quel che , forse, avresti voluto dimenticare. Perché dico forse? Perché mi vengono in mente due versi di Pessoa:
…..O potessi sperare di ricordare
senza desiderare di dimenticare!
Per qualche anno con la mia famiglia, d’estate, si tornava al nostro paese. L’ultimo anno fu il 1962, l’estate in cui morì Marilyn Monroe. Era il 5 di Agosto ed io stavo facendo il bagno quando lo seppi. Marilyn era ancora giovane, e la sua morte fu drammatica ed anche oscura: colpì molto la gente.
Quello che mi colpisce oggi, a ripensarci, é il modo in cui si diffuse la notizia: di voce in voce, da persona a persona; dai primi – pochi- che l’avevano sentita alla radio. Ed ogni voce era partecipe, quasi avesse avuto una conoscenza diretta della povera attrice. Una era sommessa,una incredula, un’altra costernata. Qualcuna fatalista. Sulla spiaggia se ne continuò a parlare per tutta la sera. Quanto sarebbe stato diverso oggi, nel nuovo mondo dei media?
Poi dovettero passare molti anni prima che ci tornassi in quel mare. L’occasione fu la pubbica ricordanza di un mio zio che si era fatto onore nelle lettere e nella glottologia. E quella fu per me anche l’occasione per visitare i “Mercati Saraceni”. Ne avevo sentito parlare in famiglia e mi avevano evocato cose turche, fantasie di vendite di schiavi e di odalische; di scimitarre e di mezze lune.
E invece no, é un notevole complesso settecentesco, fatto da tale principe di Tarsia, per tenerci delle fiere molto frequentate a loro tempo. Ne conservo un buon ricordo, ma ancora una volta quello che più mi si fissò in mente, fu il mare che si stendeva di fronte, fino alle case del paese ed oltre. Il mio mare.
Il mio primo capello bianco lì per li non mi fece gran male. “Toh!…”, mi dissi più sorpreso che altro: mi sembrò una di quelle cose che poi,… tanto c’é tempo. Un po’ di tentazione di strapparlo magari la ebbi, ma infine lasciai stare. E mi tenni in testa quel trofeo. Forse pensavo che tanto sarebbe caduto come tanti altri capelli, senza realizzare però che , cadendone uno, ne potevano spuntare altri due, o anche più. Insomma, mi dissi che non era il caso di soffermarmi sulla questione, e pensare a cose più serie, che ne avevo quante ne volevo.
Però qualcosa dentro mi lavorava, lo sentivo! Così, come il barbiere che scoprì le orecchie d’asino di Re Mida e non seppe resistere alla voglia di dirlo, accontentandosi perfino di una buchetta nel terreno di un canneto, neanche io resistetti. Mi scelsi però un confidente migliore.
“Sai,… m’é venuto un capello bianco, mi é spuntato,…” dissi a colei che divideva i miei giorni, in cerca d’una qualche comprensione. E accennai uno di quei mezzi sorrisi (un poco obliqui, che non troveranno mai l’altro mezzo con cui comporre un sorriso intero!), che dovrebbero nascondere l’imbarazzo, e invece lo accentuano. “Beh, può darsi che ti darà più fascino!”, rispose allegra. “Davvero?” Ero speranzoso, molto. “No so, é una cosa che ho sentito in un film!” rispose.
Mi sentii incompreso, dapprima. Però se lei non dava tanta importanza alla cosa, perché dovevo dargliela io? Fu cosi che affrontai con più tranquillità non solo la canizie, ma perfino la calvizie.
D’altronde tutto invecchia, anche le piante. Mentre il vento, talora forte e dannoso, ma spesso solo dolce tra le foglie, le accompagna nella loro Vita.
Quell’uomo che vidi seduto un giorno sullo scalino della sua porta di casa, stava finendo di scortecciare un diritto ramo staccato di fresco. E lo faceva con tutta calma, due o tre colpi di lama ben scelti e poi si fermava e guardava in alto, verso il cielo. Il mare era davanti a lui oltre le case: da lì egli poteva solo intuirlo, e forse questo gli bastava.
Io mi fermai a guardare il suo lavoro, curioso di quel che volesse fare. Lui mi vide, mi guardò, e tornò a tagliare. Si fermò solo quando ebbe fissato una estremità del ramo, legandola in modo che una volta seccato e tolti i legacci quella piegatura diventasse il manico di un bastone.
Io avevo osservato tutto in silenzio per tutto il tempo. Lui mi guardò e: ” Hai visto come si fa un bastone?…Mi aiuterà a camminare. Quello che ho non mi piace più, ne volevo uno nuovo!” E con due passi mi mostrò la zoppìa d’una sua gamba. “Perché ti fermavi a guardare il cielo mentre pulivi il ramo?”, mi venne di chiedergli.
“Lo guardavo,…ma non per vederlo,…pensavo,…: diciamo che vedevo cose nella mia testa”. “Erano cose belle o brutte?” Mi guardò bene e :”Piccolo curioso, un mare in tempesta é bello o brutto?” La risposta mi salì spontanea:”Se ci sto dentro é brutto!”. “Ecco, ma può essere bello, molto bello, se lo guardi e non ci sei dentro.” Fece una faccia pensierosa e lento si rimise a sedere: “La guerra mi ha dato questa gamba; sono tanti anni che me la porto così. Deformata com’é. E pure qualche volta la vedo bella: quando mi dà pensieri belli.”
E mi parlò di come, in una guerra- lontana dalla sua casa e dalla sua mente- ferito, debole, scoraggiato, fosse stato accolto da una donna in una casa povera di cose, ma ricca di umanità. Per lui quella donna era bellissima. Così l’aveva vista e così continuava a vederla.” Forse neanche era vero- diceva- forse le vedevo nel viso la bellezza della sua anima.”
Mi guardò e mi guardò ancora, dicendomi quello che tante volte si dice ai piccoli per affermare qualche vantaggio dell’età adulta:” Sei troppo piccolo per capire! Un giorno forse,…” Chissà se ancor’oggi ho capito bene?
Io così l’ho immaginata quella donna: